Photo Credit: Valentina Maltagliati

“È tutto marketing”
“Lo fanno per la visibilità”
“Sono dei venduti che si attaccano al trend del momento”

Queste sono le frasi standard che sforna quell’NPC che anima il background di quella che noi chiamiamo realtà*.
(*) gente che commenta nei social.

Bene, passiamo oltre.

Ma prima facciamo un passo indietro: di cosa stiamo parlando?

#aloytheplaceholder

Il caso è l’ambient marketing di Sony per il lancio di Horizon 2 Forbidden west: la campagna ha fatto materializzare una statua della protagonista del gioco nel centro di Firenze.

L’opera reca una targa dove dichiara di essere “un “placeholder” per tutte le donne che hanno condiviso i valori di tenacia e coraggio e meriterebbero una statua”.

Brandwashing? Virtue signalling?

Per stabilire se si tratta di un’operazione compiacente determinati trend, oppure una progettazione solida e dall’etica sincera e coerente, dobbiamo riavvolgere il nastro.

Tanto per cominciare la storia del gioco non è stata scritta ieri, e nemmeno giorno prima del lancio del capitolo precedente: i lavori sono iniziati nel 2011 e finiti nel 2017, quindi ben prima del #metoo.

Per chi non avesse presente, scrivere una sceneggiatura di quella complessità -completa di tutto il mondo che ci gira attorno- richiede uno studio mostruoso, non un semplice

“facciamo che il protagonista è una ragazzina”
“GENIO!”.

Riassunto per chi non avesse giocato il titolo: la storia si svolge in un futuro post apocalittico dove l’umanità è stata decimata da una catastrofe che lei stessa ha scatenato

 

La catastrofe, frutto di un’intricata questione politico-economica, inizia ai giorni nostri e qui vediamo il classico compito ingrato della fantascienza: avvertire.
Sostanzialmente l’avvertimento e l’allegoria sono analoghi a quelli del recente Don’t look up di Netflix.

Quindi abbiamo il cocktail perfetto, empowerment femminile + climate change, per far schiumare un certo tipo di utente medio (l’NPC del mondo reale ci cui accennavo a inizio dell’articolo).

Detto utente medio è perfino incapace di leggere i sotto-testi della narrazione del capitolo precedente. Dati certi commenti visti in giro per la rete, possiamo allargare a “completa incapacità di leggere testi, anche quelli più didascalici”.

Sì, senza mezzi termini, possiamo dire che utenti di questa narrazione sono stati letteralmente ore e giorni davanti a un messaggio senza riuscire a leggerlo, senza notarlo neanche per sbaglio.

Il valore meta-narrativo della statua

C’è un punto molto interessante di questa installazione: se consideriamo il fatto che la protagonista tecnicamente nasce in questi anni (è un clone derivato dal DNA di una ricercatrice che nel 2022 ha circa 30 anni), in sostanza la presenza del placeholder si può leggere anche come “da qui ai prossimi mille anni”.

In pratica: il nostro contemporaneo diventa parte della narrazione e inserisce il nostro mondo all’interno di quello di Horizon, aumentando l’efficacia e la solidità della storia.

La solidità è data dal fatto che “è tratto da una storia vera”, un’apocalisse che sta cominciando qui e ora -e solo noi possiamo fermare, qui e ora, il peggio prima che sia troppo tardi.

Storytelling o qualcosa in più?

Il termine storytelling, quando parliamo di comunicazione, può essere:

  • una storia ben raccontata
  • oppure una storiella improvvisata tenuta su con la colla ideologica riciclata alla meno peggio per un addobbo traballante appiccicato al brand.

Ma quando si tratta di disegnare un progetto del genere, non me ne abbiano tutti coloro che sfornano i pur ottimi 90 secondi emotional per il Superbowl, è un altro paio di maniche.

Qui si tratta di creare spessore nel personaggio principale e nei comprimari che passa attraverso fiumi di parole. Il tutto è volto a definire un’ambientazione che diventa metafora di tutti i messaggi e delle mille sfumature necessarie a un quadro ricco di dettagli.

L’impresa in cui riesce Horizon è quella di definire un mondo e le dinamiche che si sono create all’interno di esso: la convivenza delle varie tribù è specchio ognuna di un preciso aspetto delle attuali aggregazioni umane. Sfogliando le pagine dell’artwork si può comprendere appieno quanto lavoro certosino c’è dietro la creazione di ogni vestito delle tribù, le diverse architetture.

In una parola: sono state disegnate intere culture.
Qui stiamo definendo una mitologia completa, non semplicemente una bella lore.

Tutto questo per dire che il frutto finale di questo lavoro fatto di studi multidisciplinari non è una “trovata del reparto marketing”, il valore dell’opera nel suo complesso purtroppo è realmente intelligibile solo a una porzione troppo piccola di persone e troppo poco riconosciute dai media mainstream (tranne poche e meritevoli eccezioni).

Ragionare sui valori semiotici di un gioco è materia di sparute minoranze su Youtube e nessuna di queste arriva a canali mainstream.

In sostanza, solo fra qualche anno avremo modo di guardare indietro e capire che questo titolo ha nel DNA valori che sono nello zeitgeist del contemporaneo, e non nel trend opportunista e compiacente dell’ultima ora.

 

Photo Credit: Valentina Maltagliati